Dopo aver trascorso la notte al fresco di Grumes ci dirigiamo verso la Val di Fiemme dove, dalla località Cascata di Cavalese, imbocchiamo la strada sterrata che sale a Tabìa e nei pressi del Ponte Crosette (ca 1100 m) parcheggiamo l'auto.
C'incamminiamo lungo la carrareccia che si alza gradatamente costeggiando il rivo di Val Moena. Siamo immersi in una lussureggiante pecceta con un sottobosco ricco di megaforbie e muschi.
Lungo la via avvistiamo un curioso scoiattolo nero.
Dopo esserci rinfrescati alla sorgente del Pontaion raggiungiamo Malga delle Caore (1706 m) e la valle comincia ad aprirsi come d'incanto: il rio solca un ampio vallone con la piramide di Cima Stellune che fa da sfondo.
Superiamo la Malga Nuova di Valmoena (1744 m) e percorriamo il fondovalle fino al bivio con il sentiero 317 b.
Il cielo si è incupito, il Castel di Bombasel è ammantato da nubi per ora innocue.
Cominciamo a salire ripidamente in un bel bosco di larici, cirmoli e rododendri in fiore, e qui più che mai percepisco il profumo del Lagorai.
Esso è un mix di odor di larice, cimbro, rododendro, muschio, lichene e porfido. E' un'essenza particolare che non riesco a percepire altrove e mi viene in mente una strofa della poesia “Profumo de Lagorai” di Paride Franceschini:
“Endò che te snasi sol e sempre quel profumo
primavera, istà, inverno e autuno,
profumo che no se desmentega mai..
profumo de Lagorai”.
Giungiamo al Baito del Cimon (ca 2000 m) e una coppia di simpatici fiemmazzi ci offre un litro di caffè a testa.
Ringraziati i due affabili signori e dopati a dovere riprendiamo il sentiero che s'alza risalendo a zig zag la parete est del Cimon di Val Moena.
Giungiamo su una selletta dove inizia la rocciosa cresta sud del nostro Cimon e la vista s'apre a 360°: a sud est la testata della Val Moena è sbarrata dall'ardito Cimon delle Stellune e in lontananza si nota Cima Lagorai, a ovest l'anfiteatro del Forame coronato dalla Cima dell'Inferno, a sud il severo Cimon di Busa Grana, a est il Cimon del To della Trappola, il Castel di Bombasèl e il Cimon della Roa.
Cominciamo l'attacco alla cima. Non essendoci segnavia percorriamo il costone sud seguendo ometti di pietra. Sotto di noi un camoscio sta risalendo la val Forame. Ho le gambe un po' imballate (altro che doping da caffè!) e quindi procediamo lentamente.
Il sentiero risale i ripidi prati e le pietraie franose che danno sul versante della val Forame, bisogna prestare attenzione. Procediamo lungamente in costa; durante la salita incontriamo per caso Marina, un'amica della SAT di Lavis, e scambiamo due chiacchiere.
Un ultimo sforzo e siamo sul largo spallone erboso che ci porta in vetta al Cimon di Val Moena (2488 m). Purtroppo verso nord il cielo è coperto e le nebbie stanno strisciando velocemente verso di noi. Verso sud invece il panorama è simile a quello visto dalla forcella, solo che da qui si scorge anche il piccolo laghetto del Forame sotto la Busa Grana.
Vista la nebbia incombente decidiamo di mangiare alla Forcella del Capitello (2253 m) quindi, sempre prestando la massima attenzione, ridiscendiamo dalla cima e nei pressi del capitello costruito alla memoria dei caduti in guerra, pranziamo.
Finito cominciamo a calare lungo la selvaggia val del Forame, entriamo in un valloncello scavato fra aspre rocce dal rio del Forame.
Il paesaggio è delizioso, giriamo l'angolo e ci si para davanti un bel promontorio tappezzato di cembri e rododendri in fiore.
Entriamo ora nel rado bosco di larici e talvolta attraversiamo radure, spesso torbose.
Sul versante sud ovest del Cimon un camoscio ci scruta da lontano.
Giungiamo alla Malga Forame Alta (1909 m) dove imbocchiamo la forestale, di fronte a noi si erge il Corno Nero.
Scendiamo lungo questa strada, oltrepassiamo la Casera delle Capre (1610 m) e poco oltre, nei pressi di un tornante, attratti dalla prospettiva di trovare funghi, proseguiamo diritti nella peccetta.
Ci reimmettiamo poi sulla strada succitata e la percorriamo fino al Ponte Brustolaie, dove la mattina abbiamo preso per la Val Moena e da qui in breve all'auto.
Per quelli che non possono fare a meno della montagna... per quelli che aspettano la neve... per quelli che seguono l'ombra dell'orso...
sabato 30 giugno 2012
venerdì 29 giugno 2012
16-17/06/2012 Pasubio: un viaggio nella storia. Per non dimenticare.
Il giro del Pasubio con un esperto della Grande Guerra è un'escursione che come SAT volevamo fare nel 2010, ma a causa del maltempo era saltata.
Finalmente ecco giungere il momento propizio.
Per evitare la levataccia di domenica a causa della fantomatica Marcia del Pasubio, con Claudio, Flavio, Elisa e Clara decidiamo di salire al rifugio Lancia il sabato.
Dopo aver fatto un giro turistico a Terragnolo. "Ma non dovremmo essere di là?". Dietrofront.
Dopo aver risalito la sinistra orografica della Vallarsa a causa di un divieto mal interpretato. "Ma non dovremmo esser su quel lato della valle?".
Dopo aver forzato un divieto in combutta con due motociclisti.
Eccoci finalmente al parcheggio di Malga Cheserle (1402 m)e qui per caso incontriamo la nostra guida, il mitico Mauro Zattera, che sta aspettando un suo amico.
Ci salutiamo e ci diamo appuntamento più tardi in rifugio.
Fa molto caldo e stiamo già sognando una fresca e dissetante birra.
Risaliamo lungo la strada – segnavia 101 - con bella vista sui costoni meridionali dell'Alpe Alba; nei pressi di una verde radura circondata da larici facciamo una breve pausa.
Giungiamo al rifugio Lancia (1802 m) e, abbandonate le velleità alpinistiche, ci diamo alle velleità alcolistiche. Ben presto arrivano anche Mauro e il suo amico mestrino Alessandro e ce ne stiamo all'aria a parlare di racconti di guerra, di viaggi, di fantasmi e il tempo vola.
Tutti a tavola, la cena è pronta... e che cena!
Nel frattempo si uniscono a noi anche altri tre amici di Mauro, tutti dell'Associazione Cime e Trincee, e la tavolata si allarga.
Il sole sta calando dietro l'Alpe Alba, giusto il tempo di vedere gli ultimi caldi raggi di sole baciare le sue praterie.
Con Claudio, Flavio e Elisa andiamo a far due passi digestivi, mentre nell'aria echeggiano strani richiami avvistiamo un capriolo che placidamente sta brucando nel prato sotto di noi.
Rientriamo in rifugio, ultime chiacchiere e poi tutti in camerata.
Motto del giorno: "Bevo pivo finché vivo, bevo Lasko finché casco"
Dopo una bella dormita eccoci intenti a colazionare tutti assieme, Alessandro e i tre amici partono alla conquista di gallerie e camminamenti, noi attendiamo gli altri 13 satini.
Alle 9.15 arrivano alla spicciolata, tempo di un caffè e poi ha inizio il viaggio nella storia.
Seguendo il segnavia 102 saliamo alla Bocchetta delle Corde (1894 m) con bella vista sul Monte Testo e il Corno Battisti: Mauro inizia a raccontarci della Grande Guerra e il viaggio, oltre che fisico, diventa mentale.
Proseguiamo lungo il sentiero 105 che taglia il versante meridionale del Roite, sotto di noi si apre l'alpe Cosmagnon. Nel frattempo ci raggiunge l'altro esperto di Pasubio, Gino di Valdagno.
Arriviamo alla sella del Roite (2081 m) e giriamo sul versante orientale del Piccolo Roite, percorriamo camminamenti e scalinate. L'intero paesaggio del Pasubio è sconvolto dai combattimenti della Grande Guerra: la superficie è martoriata dai crateri delle bombe e si notano ancor oggi trincee, camminamenti, gallerie e ricoveri.
Maciniamo chilometri senza rendercene conto, ammaliati dai racconti di Mauro e Gino.
Ed eccoci infine sulla selletta del Piccolo Roite in prossimità dei due Denti.
I Denti sono due speroni rocciosi posti l’uno di fronte all’altro sul crinale principale e sotto di essi vi è una delle più importanti opere belliche del Pasubio ovvero il sistema sotterraneo dei due Denti. Dopo le prime fasi del conflitto il dente meridionale - Dente Italiano - fu fortificato dagli italiani, mentre quello settentrionale dagli austriaci - Dente Austriaco. Sono delle vere e proprie fortezze naturali, in cui furono scavati postazioni d’artiglieria, ricoveri e feritoie.
Nell'inverno 1917-18 furono teatro di una guerra parallela denominata “guerra sotterranea” (o "guerra delle mine") in quanto lo scopo di entrambe le parti era quello di far saltare con l’esplosivo le postazioni nemiche.
Entriamo nel Dente Austriaco grazie alla Galleria Ellison. Questa deve il suo nome al generale Otto Ellison, colui che, a riguardo del Dente Austriaco, disse "Si ricordi che le più grandi battaglie, per la conquista del Pasubio, furono combattute in uno spazio lungo 200 metri e largo ottanta" .. in 10 giorni ci furono oltre 4000 morti!
L'entrata è a dir poco claustrofobica, bisogna mettersi a carponi e proseguire verso l'oscurità, non è una sensazione piacevole, ma la curiosità spinge avanti.
Gino ci illustra, con una sensibilità fuori dal comune, come poteva essere la vita in queste gallerie: la perenne umidità, il freddo dell'inverno, la fame, la paura, la lotta contro i topi, la nostalgia di casa, il fischio delle bombe, la morte sempre dietro l'angolo... da dove arriverà dall'alto? o dal basso?
"Sergentmagiù ghe rivarem a baita?"
Usciamo dalla galleria; nel frattempo il cielo si è coperto di nubi, saliamo in cima al Dente Austriaco e pranziamo.
Ben presto giunge il tempo "de nar nar nar", manca ancora molto.
Scendiamo alla sella dei Due Denti (2175 m) e qui ci si parano dinnanzi le macerie del Dente Italiano (2220 m).
Stiamo per entrare nella zona sacra del Pasubio, così dichiarata dal Regio Decreto n. 1386 nel 1922, un'assurdità non comprendere anche il Dente Austriaco. Stupidi campanilismi.
Il Dente Italiano, all'inizio del conflitto mondiale, diventò un punto di forza dell'esercito italiano sul Pasubio, occupato nell'iniziale ritirata austriaca per fortificare le linee di difesa. Tuttavia, durante la Strafexpedion, l'esercito asburgico avanzò fino ad insidiare la stessa Cima Palon, assestandosi all'inizio dell'estate 1916 sulla linea fra i Denti.
La grande battaglia del 2 luglio 1916 vide il tenente Damaggio fermare l'avanzata nemica sulla selletta fra Dente e Cima Palon, da cui il nome della selletta stessa.
Durante la guerra di mine il Dente Italiano fu scavato non solo per offrire postazioni di fuoco e ricoveri per l'esercito italiano, ma anche nel tentativo di insinuarsi, per farle saltare con l'esplosivo, sotto le postazioni nemiche del Dente Austriaco. Dal settembre 1917 al 13 marzo 1918 vennero fatte brillare numerose mine senza mai ottenere i risultati voluti.
Alle 4.30 del 13 marzo 1918 furono fatti brillare 50.000 kg di tritolo e altri esplosivi sotto il Dente Italiano, provocando una grossa esplosione e causando il crollo della parte settentrionale del monte. Rimasero uccisi nel crollo 52 militari italiani e, a causa del ritorno di fiamma dei gas, anche 3 austro-ungarici. Fortunatamente le postazioni italiane erano state ridotte al minimo a causa di una mina italiana che doveva essere fatta scoppiare quella mattina stessa.
Nei pressi della Selletta Damaggio (2200 m ) entriamo nella galleria che prese il nome dal comandante della Brigata Liguria Achille Papa che ci porta diritti su Cima Palon (2232 m), la vetta più alta del Pasubio.
Da cima Palon scendiamo verso la Chiesetta di Santa Maria e alla vicina Selletta Comando (2070 m) da cui parte la cresta che sale al Corno del Pasubio dove avvistiamo un camoscio. Proseguiamo sul sentiero 120 fino alle Sette Croci e alla Selletta del Groviglio (2077 m), da questa risaliamo alla Sella del Roite e seguendo il sentiero 105 ci portiamo alla Selletta ovest dei Campiluzzi con vicino il grazioso bivacco della SAT di Rovereto.
Percorrendo un bel sentiero che si snoda tra mughi e larici ritorniamo alla Bocchetta delle Corde e da qui in breve al Lancia dove incontriamo gli amici del giorno prima.
Al rifugio ci concediamo un'ultima birra prima del ritorno a casa, nell'aria echeggia un po' di sana malinconia perché giornate così ricche di emozioni si vivono raramente.
Un sentito e immenso grazie va a Gino e Mauro che ci hanno saputo trasmettere con passione le vicende drammatiche che si sono svolte in questi luoghi.
E' così che a parer mio si deve andar in montagna, non solo per la smania di conquistare cime, collezionare dislivelli o per l'atto sportivo in sé, ma cercando di apprendere sempre di più sul territorio, sulle tradizioni, sulle leggende, sulla flora, sulla fauna, sulla storia... e soprattutto da quest'ultima imparare a non commettere altri errori.
Per non dimenticare.
Costoni sotto l'Alpe Alba
Rifugio Lancia
Tramonto al Lancia
Girovagando in Pasubio
Finalmente ecco giungere il momento propizio.
Per evitare la levataccia di domenica a causa della fantomatica Marcia del Pasubio, con Claudio, Flavio, Elisa e Clara decidiamo di salire al rifugio Lancia il sabato.
Dopo aver fatto un giro turistico a Terragnolo. "Ma non dovremmo essere di là?". Dietrofront.
Dopo aver risalito la sinistra orografica della Vallarsa a causa di un divieto mal interpretato. "Ma non dovremmo esser su quel lato della valle?".
Dopo aver forzato un divieto in combutta con due motociclisti.
Eccoci finalmente al parcheggio di Malga Cheserle (1402 m)e qui per caso incontriamo la nostra guida, il mitico Mauro Zattera, che sta aspettando un suo amico.
Ci salutiamo e ci diamo appuntamento più tardi in rifugio.
Fa molto caldo e stiamo già sognando una fresca e dissetante birra.
Risaliamo lungo la strada – segnavia 101 - con bella vista sui costoni meridionali dell'Alpe Alba; nei pressi di una verde radura circondata da larici facciamo una breve pausa.
Giungiamo al rifugio Lancia (1802 m) e, abbandonate le velleità alpinistiche, ci diamo alle velleità alcolistiche. Ben presto arrivano anche Mauro e il suo amico mestrino Alessandro e ce ne stiamo all'aria a parlare di racconti di guerra, di viaggi, di fantasmi e il tempo vola.
Tutti a tavola, la cena è pronta... e che cena!
Nel frattempo si uniscono a noi anche altri tre amici di Mauro, tutti dell'Associazione Cime e Trincee, e la tavolata si allarga.
Il sole sta calando dietro l'Alpe Alba, giusto il tempo di vedere gli ultimi caldi raggi di sole baciare le sue praterie.
Con Claudio, Flavio e Elisa andiamo a far due passi digestivi, mentre nell'aria echeggiano strani richiami avvistiamo un capriolo che placidamente sta brucando nel prato sotto di noi.
Rientriamo in rifugio, ultime chiacchiere e poi tutti in camerata.
Motto del giorno: "Bevo pivo finché vivo, bevo Lasko finché casco"
Dopo una bella dormita eccoci intenti a colazionare tutti assieme, Alessandro e i tre amici partono alla conquista di gallerie e camminamenti, noi attendiamo gli altri 13 satini.
Alle 9.15 arrivano alla spicciolata, tempo di un caffè e poi ha inizio il viaggio nella storia.
Seguendo il segnavia 102 saliamo alla Bocchetta delle Corde (1894 m) con bella vista sul Monte Testo e il Corno Battisti: Mauro inizia a raccontarci della Grande Guerra e il viaggio, oltre che fisico, diventa mentale.
Proseguiamo lungo il sentiero 105 che taglia il versante meridionale del Roite, sotto di noi si apre l'alpe Cosmagnon. Nel frattempo ci raggiunge l'altro esperto di Pasubio, Gino di Valdagno.
Arriviamo alla sella del Roite (2081 m) e giriamo sul versante orientale del Piccolo Roite, percorriamo camminamenti e scalinate. L'intero paesaggio del Pasubio è sconvolto dai combattimenti della Grande Guerra: la superficie è martoriata dai crateri delle bombe e si notano ancor oggi trincee, camminamenti, gallerie e ricoveri.
Maciniamo chilometri senza rendercene conto, ammaliati dai racconti di Mauro e Gino.
Ed eccoci infine sulla selletta del Piccolo Roite in prossimità dei due Denti.
I Denti sono due speroni rocciosi posti l’uno di fronte all’altro sul crinale principale e sotto di essi vi è una delle più importanti opere belliche del Pasubio ovvero il sistema sotterraneo dei due Denti. Dopo le prime fasi del conflitto il dente meridionale - Dente Italiano - fu fortificato dagli italiani, mentre quello settentrionale dagli austriaci - Dente Austriaco. Sono delle vere e proprie fortezze naturali, in cui furono scavati postazioni d’artiglieria, ricoveri e feritoie.
Nell'inverno 1917-18 furono teatro di una guerra parallela denominata “guerra sotterranea” (o "guerra delle mine") in quanto lo scopo di entrambe le parti era quello di far saltare con l’esplosivo le postazioni nemiche.
Entriamo nel Dente Austriaco grazie alla Galleria Ellison. Questa deve il suo nome al generale Otto Ellison, colui che, a riguardo del Dente Austriaco, disse "Si ricordi che le più grandi battaglie, per la conquista del Pasubio, furono combattute in uno spazio lungo 200 metri e largo ottanta" .. in 10 giorni ci furono oltre 4000 morti!
L'entrata è a dir poco claustrofobica, bisogna mettersi a carponi e proseguire verso l'oscurità, non è una sensazione piacevole, ma la curiosità spinge avanti.
Gino ci illustra, con una sensibilità fuori dal comune, come poteva essere la vita in queste gallerie: la perenne umidità, il freddo dell'inverno, la fame, la paura, la lotta contro i topi, la nostalgia di casa, il fischio delle bombe, la morte sempre dietro l'angolo... da dove arriverà dall'alto? o dal basso?
"Sergentmagiù ghe rivarem a baita?"
Usciamo dalla galleria; nel frattempo il cielo si è coperto di nubi, saliamo in cima al Dente Austriaco e pranziamo.
Ben presto giunge il tempo "de nar nar nar", manca ancora molto.
Scendiamo alla sella dei Due Denti (2175 m) e qui ci si parano dinnanzi le macerie del Dente Italiano (2220 m).
Stiamo per entrare nella zona sacra del Pasubio, così dichiarata dal Regio Decreto n. 1386 nel 1922, un'assurdità non comprendere anche il Dente Austriaco. Stupidi campanilismi.
Il Dente Italiano, all'inizio del conflitto mondiale, diventò un punto di forza dell'esercito italiano sul Pasubio, occupato nell'iniziale ritirata austriaca per fortificare le linee di difesa. Tuttavia, durante la Strafexpedion, l'esercito asburgico avanzò fino ad insidiare la stessa Cima Palon, assestandosi all'inizio dell'estate 1916 sulla linea fra i Denti.
La grande battaglia del 2 luglio 1916 vide il tenente Damaggio fermare l'avanzata nemica sulla selletta fra Dente e Cima Palon, da cui il nome della selletta stessa.
Durante la guerra di mine il Dente Italiano fu scavato non solo per offrire postazioni di fuoco e ricoveri per l'esercito italiano, ma anche nel tentativo di insinuarsi, per farle saltare con l'esplosivo, sotto le postazioni nemiche del Dente Austriaco. Dal settembre 1917 al 13 marzo 1918 vennero fatte brillare numerose mine senza mai ottenere i risultati voluti.
Alle 4.30 del 13 marzo 1918 furono fatti brillare 50.000 kg di tritolo e altri esplosivi sotto il Dente Italiano, provocando una grossa esplosione e causando il crollo della parte settentrionale del monte. Rimasero uccisi nel crollo 52 militari italiani e, a causa del ritorno di fiamma dei gas, anche 3 austro-ungarici. Fortunatamente le postazioni italiane erano state ridotte al minimo a causa di una mina italiana che doveva essere fatta scoppiare quella mattina stessa.
Nei pressi della Selletta Damaggio (2200 m ) entriamo nella galleria che prese il nome dal comandante della Brigata Liguria Achille Papa che ci porta diritti su Cima Palon (2232 m), la vetta più alta del Pasubio.
Da cima Palon scendiamo verso la Chiesetta di Santa Maria e alla vicina Selletta Comando (2070 m) da cui parte la cresta che sale al Corno del Pasubio dove avvistiamo un camoscio. Proseguiamo sul sentiero 120 fino alle Sette Croci e alla Selletta del Groviglio (2077 m), da questa risaliamo alla Sella del Roite e seguendo il sentiero 105 ci portiamo alla Selletta ovest dei Campiluzzi con vicino il grazioso bivacco della SAT di Rovereto.
Percorrendo un bel sentiero che si snoda tra mughi e larici ritorniamo alla Bocchetta delle Corde e da qui in breve al Lancia dove incontriamo gli amici del giorno prima.
Al rifugio ci concediamo un'ultima birra prima del ritorno a casa, nell'aria echeggia un po' di sana malinconia perché giornate così ricche di emozioni si vivono raramente.
Un sentito e immenso grazie va a Gino e Mauro che ci hanno saputo trasmettere con passione le vicende drammatiche che si sono svolte in questi luoghi.
E' così che a parer mio si deve andar in montagna, non solo per la smania di conquistare cime, collezionare dislivelli o per l'atto sportivo in sé, ma cercando di apprendere sempre di più sul territorio, sulle tradizioni, sulle leggende, sulla flora, sulla fauna, sulla storia... e soprattutto da quest'ultima imparare a non commettere altri errori.
Per non dimenticare.
Costoni sotto l'Alpe Alba
Rifugio Lancia
Tramonto al Lancia
Girovagando in Pasubio
10/06/2012 Da Sporminore al Lago di Tovel (Brenta)
Ci troviamo alle 7 in piazza a Lavis e partiamo in 28 satini direzione Sporminore.
Il tempo non promette nulla di buono: la val di Non è ammantata da un fitto strato di nubi minacciose e comincia a cadere qualche goccia di pioggia.
Dalla piazza risaliamo il paese fino al campo sportivo dove imbocchiamo una strada che prosegue pianeggiante fino alla sorgente Busoni.
Oltrepassiamo la sorgente e giungiamo a un’area di sosta attrezzata con panchine e tavolini sopra l'abitato di Lover. Proseguiamo poi sempre su percorso pianeggiante al margine tra bosco e frutteti. Sopra Campodenno, in prossimità del Dosso di San Pancrazio, il sentiero è scavato nella roccia e si ha un bella veduta sulla bassa Val di Non.
Sopra il paese di Termon intersechiamo la strada asfaltata che da Cunevo porta a Malga Arza, la percorriamo per un breve tratto e poi c'immettiamo nel largo sentiero ricavato dal canale irriguo che dalla Val di Tovel portava l'acqua al versante orografico destro della bassa Val di Non. Attraversando una rigogliosa faggeta passiamo sopra gli abitati di Cunevo, Flavon e Terres fino a giungere all'imbocco dell'omonima galleria.
Questa è una galleria trattorabile a servizio dell’acquedotto che è stata allestita e illuminata in modo da essere fruibile anche ai pedoni e ai ciclisti, la temperatura interna si aggira intorno ai 10-12° C costanti.
Qui si uniscono al gruppo altri 5 satini.
Alcuni ciclisti provenienti da Tovel ci dicono che dall'altra parte della galleria sta diluviando.
Indossiamo il caschetto e la frontale e c'inoltriamo nella montagna.
Percorriamo l'umido e fresco condotto e sbuchiamo direttamente sulla destra orografica della Val di Tovel: piove, ma non molto, tempo di indossare la ventina e toglierla poco dopo.
Procediamo ora sul sentiero delle Antiche Segherie fino a raggiungere il ristorante Capriolo (770 m), nei pressi del quale ci fermiamo a pranzare.
Dopo una bella chiacchierata con Gilberto il guardaparco e un buon caffè partiamo alla spicciolata.
Nei pressi del Capriolo ha inizio il sentiero delle Glare: c'inoltriamo così in un lussureggiante bosco di abeti e lambiamo qualche laghetto dall'incantevole color verde-turchese.
A monte del bellissimo (!!!) campo di tamburello in questa stagione si formano dei laghetti effimeri dai colori straordinari che svaniscono poi nella pietraia delle Glare per ricomparire la primavera successiva.
Il sentiero ora comincia a salire inerpicandosi nella zona molto arida e rocciosa delle Glare: questa è un macereto provocato da un’antica frana staccatasi alcuni secoli fa dal Monte Corno.
Nei pressi di un punto panoramico il sentiero torna nel bosco dapprima in pineta e poi in peccata. Superata la località Lavacel proseguiamo in piano fino a raggiungere una ripida rampa che conduce al parcheggio nei pressi del Lago di Tovel.
Dal parcheggio in pochi minuti raggiungiamo le placide rive del lago che fu rosso (1178 m) e ci godiamo un po' di riposo in attesa del pullman che ci riporterà a Sporminore.
Bellissima e lunga escursione (oltre 22 km) che sfiora luoghi che solitamente si passano via velocemente in macchina. E' proprio vero che talvolta sarebbe più sensato scendere dall'auto e avvicinarsi alla meta lentamente, come viandanti, perché la bellezza non risiede solamente nel posto che si vuole visitare, ma essa sta anche (e soprattutto direi) nel viaggio che si compie per arrivarci.
I fantastici laghetti lungo il sentiero delle Glare
Il tempo non promette nulla di buono: la val di Non è ammantata da un fitto strato di nubi minacciose e comincia a cadere qualche goccia di pioggia.
Dalla piazza risaliamo il paese fino al campo sportivo dove imbocchiamo una strada che prosegue pianeggiante fino alla sorgente Busoni.
Oltrepassiamo la sorgente e giungiamo a un’area di sosta attrezzata con panchine e tavolini sopra l'abitato di Lover. Proseguiamo poi sempre su percorso pianeggiante al margine tra bosco e frutteti. Sopra Campodenno, in prossimità del Dosso di San Pancrazio, il sentiero è scavato nella roccia e si ha un bella veduta sulla bassa Val di Non.
Sopra il paese di Termon intersechiamo la strada asfaltata che da Cunevo porta a Malga Arza, la percorriamo per un breve tratto e poi c'immettiamo nel largo sentiero ricavato dal canale irriguo che dalla Val di Tovel portava l'acqua al versante orografico destro della bassa Val di Non. Attraversando una rigogliosa faggeta passiamo sopra gli abitati di Cunevo, Flavon e Terres fino a giungere all'imbocco dell'omonima galleria.
Questa è una galleria trattorabile a servizio dell’acquedotto che è stata allestita e illuminata in modo da essere fruibile anche ai pedoni e ai ciclisti, la temperatura interna si aggira intorno ai 10-12° C costanti.
Qui si uniscono al gruppo altri 5 satini.
Alcuni ciclisti provenienti da Tovel ci dicono che dall'altra parte della galleria sta diluviando.
Indossiamo il caschetto e la frontale e c'inoltriamo nella montagna.
Percorriamo l'umido e fresco condotto e sbuchiamo direttamente sulla destra orografica della Val di Tovel: piove, ma non molto, tempo di indossare la ventina e toglierla poco dopo.
Procediamo ora sul sentiero delle Antiche Segherie fino a raggiungere il ristorante Capriolo (770 m), nei pressi del quale ci fermiamo a pranzare.
Dopo una bella chiacchierata con Gilberto il guardaparco e un buon caffè partiamo alla spicciolata.
Nei pressi del Capriolo ha inizio il sentiero delle Glare: c'inoltriamo così in un lussureggiante bosco di abeti e lambiamo qualche laghetto dall'incantevole color verde-turchese.
A monte del bellissimo (!!!) campo di tamburello in questa stagione si formano dei laghetti effimeri dai colori straordinari che svaniscono poi nella pietraia delle Glare per ricomparire la primavera successiva.
Il sentiero ora comincia a salire inerpicandosi nella zona molto arida e rocciosa delle Glare: questa è un macereto provocato da un’antica frana staccatasi alcuni secoli fa dal Monte Corno.
Nei pressi di un punto panoramico il sentiero torna nel bosco dapprima in pineta e poi in peccata. Superata la località Lavacel proseguiamo in piano fino a raggiungere una ripida rampa che conduce al parcheggio nei pressi del Lago di Tovel.
Dal parcheggio in pochi minuti raggiungiamo le placide rive del lago che fu rosso (1178 m) e ci godiamo un po' di riposo in attesa del pullman che ci riporterà a Sporminore.
Bellissima e lunga escursione (oltre 22 km) che sfiora luoghi che solitamente si passano via velocemente in macchina. E' proprio vero che talvolta sarebbe più sensato scendere dall'auto e avvicinarsi alla meta lentamente, come viandanti, perché la bellezza non risiede solamente nel posto che si vuole visitare, ma essa sta anche (e soprattutto direi) nel viaggio che si compie per arrivarci.
I fantastici laghetti lungo il sentiero delle Glare
giovedì 21 giugno 2012
Con l'orso il silenzio non d'oro
Dopo tanta feccia giornalistica finalmente un articolo decente sull'orso.
dal quotidiano Alto Adige
Con l'orso il silenzio non d'oro
Tutti gli errori del governatore trentino Lorenzo dellai nella gestione del progetto "Life Ursus"
di Mauro Fattor
Quanti errori nelle strategie di comunicazione sull'orso. Tanti errori grandi e piccoli nel concreto, e uno madornale: quello del silenzio. Abbassare la testa ogni volta che l'orso si mangia una pecora, quasi a chiedere scusa. Un'assurdità. Colpa di chi? Del Servizio Faunistico? Di Dellai?
Cominciamo col dire che Dellai nel confronto del progetto Life Ursus si è comportato in modo sostanzialmente corretto. Il progetto è stato sostenuto sul campo in modo leale. Non certo per convinzione personale del presidente - e questa non è una novità - ma per onorare un impegno che il Trentino aveva preso in sede internazionale con l'avvio del progetto Life Ursus. Insomma, per senso delle istituzioni. Il problema è che un approccio burocratico non basta, perchè si traduce in un'ambiguità di fondo che rischia di annullare, e in parte lo ha già fatto, il buon lavoro fatto sul campo. Non si può infatti giocare solo in difesa.
Bene, se è stata la "freddezza" di Dellai nei confronti del progetto a determinare questa situazione, va detto che in questo il presidente ha sbagliato. L'orso e i predatori in genere, hanno bisogno di una gestione attiva della comunicazione. Non si può pensare che l'orso riconquisti gli antichi areali senza lavorare contemporanemente alla riconquista delle teste e, dove possibile, dei cuori delle persone. Per fare questo bisogna però sostenere anche culturalmente il progetto, "crederci" anche pubblicamente, e in questo la Provincia di Trento ha mancato. Non ha voluto o saputo farlo. Perchè l'unica cosa certa è che se, ad un certo punto, per un qualsiasi motivo (e che sia una pecora, l'asino della signora Wanda, o un orsetto imprigionato in una botte non fa nessuna differenza) si crea una domanda di informazione e di confronto attorno ad un certo tema, quella domanda, statene certi, in un modo o nell'altro verrà soddisfatta.
E' come la nicchia di un ecosistema, non resta libera per molto, se tu ti scansi ci si infila qualcun altro. Sarà impossibile evitare che tutti dicano la loro, spesso - per semplice ignoranza o per palese intento di strumentalizzare la questione orso capitalizzando le paure altrui - dicendo gigantesche fesserie, ma si può evitare che quelle fesserie, per stratificazione e per effetto di imitazione, si propaghino nel tempo e si moltiplichino migrando da un giornale all'altro, da un media all'altro, per settimane prima che qualcuno trovi la voglia di intervenire e abbia l'autorevolezza per farlo. Promuovere una buona e corretta informazione sui predatori significa quindi contrastare questa tendenza senza sottrarsi al confronto.
L'informazione sull'orso deve tenere conto poi di due ulteriori problemi che sono specificamente legati alla natura dei predatori. Il primo è che mai come nel caso dell'orso e dei predatori, si rende evidente una netta differenza nella percezione e nella valutazione di specifici fatti e situazioni tra centro e periferia. Una differenza che - per certi versi - è la riproposizione sotto nuove forme dell'antico dualismo città-campagna, urbano-rurale. In alcune valli prevale (ma anche su questa prevalenza non bisogna esagerare) un pregiudizio negativo nei confronti dei predatori-competitori che privilegia gli aspetti economici e quelli legati alla sicurezza in una cornice tipicamente utilitaristica del rapporto con la fauna selvatica e col mondo animale più in generale. A tutti gli effetti, si tratta di un pregiudizio antipredatorio tradizionale, in parte culturalmente ereditato su cui molto si potrebbe lavorare modulando in modo differenziato le strategie comunicative. Il secondo riguarda il fatto che molte interazione tra uomo e animale sono giocati a livello di proiezione simbolica.
Si tratta per lo più di processi di identificazione, che possono essere anche molto forti ed efficaci. Nel caso dei carnivori selvatici c'è invece un margine di irriducibile ambivalenza emotiva che raffredda i processi identificativi e contribuisce a spaccare l'opinione pubblica. E' una specie di cortocircuito emotivo che trova facilmente spazio sui media e che produce danni concreti, alimentando quella che un grande etologo come Hans Kruuk chiama la "sindrome del killer immorale".
La conclusione è semplice: in questo nostro tempo la percezione pubblica degli animali selvatici, e dei grandi grandi predatori in particolare, deve essere guidata. Non farlo significa rinunciare a tutto quello di buono che l'orso può portare al Trentino, che è moltissimo. E invece siamo di fronte al paradosso che il Trentino sull'orso non investe praticamente nulla, limitandosi a gestire passivamente “effetti collaterali” della sua presenza. Come dire, tenersi i guai snobbando le opportunità.
E invece: quanto vale un orsetto dal mantello quasi bianco in termini di immagine e di marketing? Se ci si crede, è una miniera d'oro. La pagina facebook di Hope, il cucciolo di orso nero la cui nascita era stata diffusa via webcam dal biologo Lynn Rogers, aveva 133 mila iscritti e faceva impazzire l'America. Fino a quando il 16 settembre del 2011 Hope fu uccisa da un cacciatore del Minnesota. E' una solenne sciocchezza pensare che la presenza dei predatori danneggi il turismo.
Le cifre di mezza Europa, dalla Slovenia all'Abruzzo passando per i Pirenei, dimostrano esattamente il contrario. Certo, se sono gli albergatori stessi e gli operatori del turismo a seminare il panico alimentando un clima di terrore e di insicurezza, i contraccolpi ci saranno eccome. Ma ognuno è liberissimo di segare il ramo su cui è seduto, tranne poi avere il buon gusto di evitare di lamentarsi. Qualche volta, parlando di orso, bisogna tirare fuori un po' i denti e un po' anche l'orgoglio.
Perchè lasciare campo libero per mesi e mesi alle litanie della Lega sul progetto Life Ursus e sullo spreco di denaro pubblico, quando sarebbe così facile metterla a tacere? Basterebbe, per esempio, ricordare alla pasionaria Franca Penasa che da presidente del comitato di gestione trentino del parco nazionale dello Stelvio, il 15 del agosto del 2004 riuscì a spendere in un solo giorno 68mila euro per avere Reinhold Messner a Rabbi, record di dissanguamento delle casse pubbliche a tutt'oggi insuperato. Per non parlare poi della "Bossi Family".
E ancora: perchè non ricordare, così, a semplice titolo informativo, che in Svizzera nessuno dei proprietari di asini della Val Rendena vedrebbe un soldo di risarcimento, visto che nessuno aveva montato il recinto elettrificato antiorso che la Provincia fornisce gratuitamente? Ferma restando, anche in questo caso, la piena libertà di suicidare i propri animali nel modo più gradito.
Oppure: perchè non spiegare che non esiste alcuna correlazione tra un orso che uccide tante pecore (anzichè una sola, come la nostra "morale" vorrebbe) e la sua presunta pericolosità? Perchè non dire che un orso non fa nulla di diverso di una faina che entra in un pollaio, facendo fuori una ventina di galline ma portandone via una sola? E che questo fenomeno è ben noto agli etologi e si chiama overkilling e non è affatto un comportamento anomalo o stravagante?Se stabiliamo delle regole chiare tra noi e gli orsi, riconoscendo innanzitutto la piena legittimità della loro presenza nei nostri boschi in qualità di autoctona, senza baloccarsi in progetti di dimezzamento a tavolino buoni solo per le campagne elettorali, questo consentirà di intervenire in modo più efficace, tempestivo e razionale anche sulle singole criticità. A beneficio di tutti. Questo dovrebbe chiedere Dellai al ministro Clini: regole chiare e maggiore coinvolgimento del ministero stesso in termini di coordinamento interregionale e di legittimazione del ruolo di capofila del Trentino in questa partita. Anche erogando risorse, se necessario.
19/06/2012
STANDING OVATION!!!!!!!!!
dal quotidiano Alto Adige
Con l'orso il silenzio non d'oro
Tutti gli errori del governatore trentino Lorenzo dellai nella gestione del progetto "Life Ursus"
di Mauro Fattor
Quanti errori nelle strategie di comunicazione sull'orso. Tanti errori grandi e piccoli nel concreto, e uno madornale: quello del silenzio. Abbassare la testa ogni volta che l'orso si mangia una pecora, quasi a chiedere scusa. Un'assurdità. Colpa di chi? Del Servizio Faunistico? Di Dellai?
Cominciamo col dire che Dellai nel confronto del progetto Life Ursus si è comportato in modo sostanzialmente corretto. Il progetto è stato sostenuto sul campo in modo leale. Non certo per convinzione personale del presidente - e questa non è una novità - ma per onorare un impegno che il Trentino aveva preso in sede internazionale con l'avvio del progetto Life Ursus. Insomma, per senso delle istituzioni. Il problema è che un approccio burocratico non basta, perchè si traduce in un'ambiguità di fondo che rischia di annullare, e in parte lo ha già fatto, il buon lavoro fatto sul campo. Non si può infatti giocare solo in difesa.
Bene, se è stata la "freddezza" di Dellai nei confronti del progetto a determinare questa situazione, va detto che in questo il presidente ha sbagliato. L'orso e i predatori in genere, hanno bisogno di una gestione attiva della comunicazione. Non si può pensare che l'orso riconquisti gli antichi areali senza lavorare contemporanemente alla riconquista delle teste e, dove possibile, dei cuori delle persone. Per fare questo bisogna però sostenere anche culturalmente il progetto, "crederci" anche pubblicamente, e in questo la Provincia di Trento ha mancato. Non ha voluto o saputo farlo. Perchè l'unica cosa certa è che se, ad un certo punto, per un qualsiasi motivo (e che sia una pecora, l'asino della signora Wanda, o un orsetto imprigionato in una botte non fa nessuna differenza) si crea una domanda di informazione e di confronto attorno ad un certo tema, quella domanda, statene certi, in un modo o nell'altro verrà soddisfatta.
E' come la nicchia di un ecosistema, non resta libera per molto, se tu ti scansi ci si infila qualcun altro. Sarà impossibile evitare che tutti dicano la loro, spesso - per semplice ignoranza o per palese intento di strumentalizzare la questione orso capitalizzando le paure altrui - dicendo gigantesche fesserie, ma si può evitare che quelle fesserie, per stratificazione e per effetto di imitazione, si propaghino nel tempo e si moltiplichino migrando da un giornale all'altro, da un media all'altro, per settimane prima che qualcuno trovi la voglia di intervenire e abbia l'autorevolezza per farlo. Promuovere una buona e corretta informazione sui predatori significa quindi contrastare questa tendenza senza sottrarsi al confronto.
L'informazione sull'orso deve tenere conto poi di due ulteriori problemi che sono specificamente legati alla natura dei predatori. Il primo è che mai come nel caso dell'orso e dei predatori, si rende evidente una netta differenza nella percezione e nella valutazione di specifici fatti e situazioni tra centro e periferia. Una differenza che - per certi versi - è la riproposizione sotto nuove forme dell'antico dualismo città-campagna, urbano-rurale. In alcune valli prevale (ma anche su questa prevalenza non bisogna esagerare) un pregiudizio negativo nei confronti dei predatori-competitori che privilegia gli aspetti economici e quelli legati alla sicurezza in una cornice tipicamente utilitaristica del rapporto con la fauna selvatica e col mondo animale più in generale. A tutti gli effetti, si tratta di un pregiudizio antipredatorio tradizionale, in parte culturalmente ereditato su cui molto si potrebbe lavorare modulando in modo differenziato le strategie comunicative. Il secondo riguarda il fatto che molte interazione tra uomo e animale sono giocati a livello di proiezione simbolica.
Si tratta per lo più di processi di identificazione, che possono essere anche molto forti ed efficaci. Nel caso dei carnivori selvatici c'è invece un margine di irriducibile ambivalenza emotiva che raffredda i processi identificativi e contribuisce a spaccare l'opinione pubblica. E' una specie di cortocircuito emotivo che trova facilmente spazio sui media e che produce danni concreti, alimentando quella che un grande etologo come Hans Kruuk chiama la "sindrome del killer immorale".
La conclusione è semplice: in questo nostro tempo la percezione pubblica degli animali selvatici, e dei grandi grandi predatori in particolare, deve essere guidata. Non farlo significa rinunciare a tutto quello di buono che l'orso può portare al Trentino, che è moltissimo. E invece siamo di fronte al paradosso che il Trentino sull'orso non investe praticamente nulla, limitandosi a gestire passivamente “effetti collaterali” della sua presenza. Come dire, tenersi i guai snobbando le opportunità.
E invece: quanto vale un orsetto dal mantello quasi bianco in termini di immagine e di marketing? Se ci si crede, è una miniera d'oro. La pagina facebook di Hope, il cucciolo di orso nero la cui nascita era stata diffusa via webcam dal biologo Lynn Rogers, aveva 133 mila iscritti e faceva impazzire l'America. Fino a quando il 16 settembre del 2011 Hope fu uccisa da un cacciatore del Minnesota. E' una solenne sciocchezza pensare che la presenza dei predatori danneggi il turismo.
Le cifre di mezza Europa, dalla Slovenia all'Abruzzo passando per i Pirenei, dimostrano esattamente il contrario. Certo, se sono gli albergatori stessi e gli operatori del turismo a seminare il panico alimentando un clima di terrore e di insicurezza, i contraccolpi ci saranno eccome. Ma ognuno è liberissimo di segare il ramo su cui è seduto, tranne poi avere il buon gusto di evitare di lamentarsi. Qualche volta, parlando di orso, bisogna tirare fuori un po' i denti e un po' anche l'orgoglio.
Perchè lasciare campo libero per mesi e mesi alle litanie della Lega sul progetto Life Ursus e sullo spreco di denaro pubblico, quando sarebbe così facile metterla a tacere? Basterebbe, per esempio, ricordare alla pasionaria Franca Penasa che da presidente del comitato di gestione trentino del parco nazionale dello Stelvio, il 15 del agosto del 2004 riuscì a spendere in un solo giorno 68mila euro per avere Reinhold Messner a Rabbi, record di dissanguamento delle casse pubbliche a tutt'oggi insuperato. Per non parlare poi della "Bossi Family".
E ancora: perchè non ricordare, così, a semplice titolo informativo, che in Svizzera nessuno dei proprietari di asini della Val Rendena vedrebbe un soldo di risarcimento, visto che nessuno aveva montato il recinto elettrificato antiorso che la Provincia fornisce gratuitamente? Ferma restando, anche in questo caso, la piena libertà di suicidare i propri animali nel modo più gradito.
Oppure: perchè non spiegare che non esiste alcuna correlazione tra un orso che uccide tante pecore (anzichè una sola, come la nostra "morale" vorrebbe) e la sua presunta pericolosità? Perchè non dire che un orso non fa nulla di diverso di una faina che entra in un pollaio, facendo fuori una ventina di galline ma portandone via una sola? E che questo fenomeno è ben noto agli etologi e si chiama overkilling e non è affatto un comportamento anomalo o stravagante?Se stabiliamo delle regole chiare tra noi e gli orsi, riconoscendo innanzitutto la piena legittimità della loro presenza nei nostri boschi in qualità di autoctona, senza baloccarsi in progetti di dimezzamento a tavolino buoni solo per le campagne elettorali, questo consentirà di intervenire in modo più efficace, tempestivo e razionale anche sulle singole criticità. A beneficio di tutti. Questo dovrebbe chiedere Dellai al ministro Clini: regole chiare e maggiore coinvolgimento del ministero stesso in termini di coordinamento interregionale e di legittimazione del ruolo di capofila del Trentino in questa partita. Anche erogando risorse, se necessario.
19/06/2012
STANDING OVATION!!!!!!!!!
venerdì 8 giugno 2012
01/06/2012 Un saluto all'oceano: cabo Peñas
A malincuore dobbiamo abbandonare Somiedo, il cuore è pesante, ci siamo affezionati a tutto, alla casa, alla valle, ai monti, agli animali, alla gente.
Partiamo direzione nord: abbiamo deciso di andare a salutare l'oceano, destinazione Cabo Peñas, il punto più settentrionale del principato delle Asturie.
Dopo aver attraversato boschi e salito montagne eccoci a quota zero.
Giungiamo al Faro del Cabo Peñas, riadattato a centro visita, e facciamo un giro, il capo è avvolto dalle nebbie.
Terminata la visita andiamo in un bar lì vicino.
Sta per finire così il nostro viaggio, con una pinta di sangria di sidro, ricordando i bei momenti di questa intensa settimana.. le sbinocolate al freddo, le corse dei camosci, i peperoni sott'aceto, il volo del grifone, l'orso, la cordialità di Emma, gli “ottimi” asparagi, le TRE pesche, fiumi di parole, il lupo, i vecchi rimbambiti, i tappeti d'erica e di ginestre, Guglielmo e la Rizolona, la naturaleza, la mano dell'uomo, le vacche-sveglia.....
Le nebbie nel frattempo si diradano e il capo si presenta in tutta la sua aspra bellezza: ripide scogliere e piccole isole.
E l'ultimo suono che echeggia nella mia mente è il richiamo malinconico di un gabbiano.
Arrivederci Spagna.
fine
Partiamo direzione nord: abbiamo deciso di andare a salutare l'oceano, destinazione Cabo Peñas, il punto più settentrionale del principato delle Asturie.
Dopo aver attraversato boschi e salito montagne eccoci a quota zero.
Giungiamo al Faro del Cabo Peñas, riadattato a centro visita, e facciamo un giro, il capo è avvolto dalle nebbie.
Terminata la visita andiamo in un bar lì vicino.
Sta per finire così il nostro viaggio, con una pinta di sangria di sidro, ricordando i bei momenti di questa intensa settimana.. le sbinocolate al freddo, le corse dei camosci, i peperoni sott'aceto, il volo del grifone, l'orso, la cordialità di Emma, gli “ottimi” asparagi, le TRE pesche, fiumi di parole, il lupo, i vecchi rimbambiti, i tappeti d'erica e di ginestre, Guglielmo e la Rizolona, la naturaleza, la mano dell'uomo, le vacche-sveglia.....
Le nebbie nel frattempo si diradano e il capo si presenta in tutta la sua aspra bellezza: ripide scogliere e piccole isole.
E l'ultimo suono che echeggia nella mia mente è il richiamo malinconico di un gabbiano.
Arrivederci Spagna.
fine
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